
Salgo sul bus, la borsa mi scivola dalla spalla, come sempre. Che cosa umiliante. Il cellulare mi vibra in tasca, lo prendo e il libro che stavo leggendo cade a terra. È mia madre. Rispondo: “Ehi! Sì, sto seguendo un corso adesso, non mi trovavo bene con degli appunti che avevo, così l’esame lo do alla fine.” E lei: “Okay, ma quindi? Quando finisci? A che punto sei con la tesi?” Il conducente frena all’improvviso e rischio di sbattere contro il finestrino. Mi piego per prendere il libro da terra e la borsa mi scivola dalla spalla. Che cosa umiliante. Mia madre continua: “Quando finisci? Hai finito di scrivere la tesi? Oggi ho parlato con zia e voleva saperlo, cioè se hai finito di scrivere la tesi. Ma l’hai finita quindi? E comunque chiamala, zia. Non la chiami mai, non ti fai mai sentire. Non chiami neanche me. Ma poi perché ti segui di nuovo questo corso? Cioè così quando finisci allora, se devi seguirlo tutto? Ah ma lo sai che oggi ho visto F., il figlio di A., e adesso lavora col padre al negozio. Si è laureato qualche mese fa e ha già trovato lavoro, a soli 21 anni, pensa tu. Ma stai bene? Soldi ne hai? E la tesi l’hai finita?” La borsa mi scivola dalla spalla, come sempre. Che cosa umiliante. Il libro si è sporcato. Sto sudando. Le cuffiette sono tutte intrecciate e non riesco a sbrogliarle. Il bus è pieno. Un ragazzo ha un posto libero vicino ma lo occupa con lo zaino. Mi guarda. Gli sorrido e gli indico il posto. Lui guarda fuori dal finestrino. “Ah comunque ho una crema da portarti,” prosegue mamma, senza un momento di pausa per respirare, “e ti prego, vatti a comprare dei jeans nuovi, che hai perso peso e quelli che hai adesso ti stanno male. Se vuoi vengo con te a prenderli. Anzi, sicuro vengo con te, ché tu non ti sai vestire. Hai uno stile tutto tuo, strano. Chissà che ti compri. Vabbè, hai 23 anni, decidi tu. Però non prenderti jeans brutti. O troppo larghi. O troppo scuri. Fai tu.” Una signora mi molla le sue buste della spesa sui piedi, si siede a terra, sul bus sudicio. “Comunque poi fammi sapere se hai finito la tesi. E fallo sapere anche a zia. Mandale un messaggio. Anzi, chiamala. E fatti sentire. Questa cosa che mandi messaggi e non telefoni mi urta proprio, ciao. Un bacio.”
Se qualcunə dovesse chiedermi: “Sim, qual è il tuo film preferito?”, io risponderei immediatamente: “Shiva Baby”. L’ho consigliato a (quasi) chiunque io conosca, è il mio impero romano (penso che soltanto le mie amiche e le persone a me vicine sappiano quanto mi piaccia — e mi dispiace per loro, mi dispiace davvero tanto) e non mi stanco mai, mai, di rivederlo.
Durante una shiva — sorta di veglia funebre secondo la religione ebraica — Danielle, ventenne, si ritrova a dover affrontare la famiglia, il suo sugar daddy segreto e la sua ex ragazza.
La famiglia e gli amici di famiglia — goffi, invadenti, imbarazzanti, soffocanti — apprezzano il suo aspetto per poi preoccuparsi per il suo fisico: “Dove sei finita? Sei tutta pelle e ossa!” esclama una donna palpandole i fianchi per assicurarsi che sia lì, presente, poi continua: “Che stai combinando, a parte morire di fame?”; chiedono aggiornamenti sullo studio, sul “lavoro da babysitter”; elogiano la sua determinazione e la peculiarità dei suoi studi (Danielle studia all’università e nessuno sembra aver capito cosa, forse neanche lei stessa: studi di genere; business di genere — o il business del genere, ironicamente; cinema o scienze politiche; fotografia? Joel, suo padre, pensa che il femminismo non sia una carriera e lei esplode: “Non è una carriera, è solo il filtro!” — silenzio tombale, imbarazzo da affettare in aria, lei conclude: “[È il filtro] attraverso cui vedo la mia carriera”. Tutto questo davanti ai genitori e allo sugar daddy, che ha lasciato poche ore prima con una bugia: “Ho questa cosa del brunch [in famiglia] per cui devo prepararmi”) per poi ribadire che comunque, nonostante il suo percorso emancipatorio, lei dipende da mamma e papà e non ha mai pagato una bolletta in vita sua; cercano costantemente qualcuno che la infili in uno stage, un lavoro che la sistemi.
Sudata e sopraffatta dalle domande, dalle aspettative e dalle pressioni, con un’ex ragazza che le rivolge frasi passivo-aggressive e uno sugar daddy con moglie e bimba da tenere segreto, Danielle attraverserà la casa-mutaforma in lutto — le cui pareti si dilateranno e stringeranno a intermittenza — con violini violenti e sferzate improvvise che la porteranno, proprio come faccio io durante i pranzi di famiglia, a chiudersi in bagno per dieci minuti e respirare nel silenzio di una calma breve ma tanto desiderata.
Danielle studia e neanche sa cosa; mente e sorride; è bisessuale ma non ha un ragazzo, né una ragazza; dice di essere vegetariana per poi strozzarsi con un bagel al salmone; beve uno, due, tre bicchieri di vino; si divincola dalle braccia della madre, dalle sue domande e affermazioni affilate ma genuine come coltelli imburrati per poi chiederle se sia delusa da lei; si scatta dei nudi in bagno e si apre una coscia per sbaglio andando contro una vite che spunta da un mobile; dice di lavorare come babysitter ma non sa tenere un bimbo tra le braccia e rovescia vasi e volumi della Torah a terra; si accascia e inizia a piangere; dice di non riuscire, di non sapere cosa fare. Danielle non sa cosa fare della propria vita e io vorrei abbracciarla, dirle che la capisco e al tempo stesso ringraziarla perché è lì, esiste in quell’ora e venti in cui mi sento meno solə, in cui sento di non essere l’unica persona a provare queste emozioni più grandi di me e che spesso fatico a riconoscere, dare il giusto spazio e la giusta attenzione.
Guardare1 Danielle affrontare la famiglia e le millemila domande e invadenze e aspettative mi aiuta a capire che non sono affatto solə. Che è normale sentirsi così e che non devo per forza sapere tutto già da adesso. E che bellissima, meravigliosa cosa vedere su uno schermo pensieri e atteggiamenti che credevo soltanto miei. Non sono solə, e menomale.
Ho una piccola tradizione, nata per caso e successivamente coltivata con consapevolezza: tatuarmi solo ed esclusivamente durante il settimo giorno del mese. Ho quattro tatuaggi realizzati nel corso di cinque anni: il primo, il 7 gennaio; il secondo, il 7 febbraio; il terzo, il 7 maggio; il quarto, il 7 marzo.
Tutti, a modo proprio e per diverse ragioni, conservano una sorta di significato, un “valore”, ma l’ultimo, fatto esattamente un anno fa, penso sia quello a cui tengo di più — e spero che gli altri tre non se la prendano.
Shiva Baby si trova su MUBI, e qui hai un mese gratuito per guardare questo e tanti altri bellissimi film.2
Per “guardare” intendo proprio “vedersi”: una bisessuale ventenne che soffre d’ansia, insicura nei confronti del proprio futuro e che si sente morire durante le riunioni di famiglia.
Non è una collaborazione, sponsorizzazione o altro.