Arriva l’estate e arriva — puntuale, inesorabile — l’insonnia.
Le tapparelle alzate per un quarto, il giusto per un po’ di vento, ma l’aria che si muove è poca ed è calda. Sul letto Estate caldissima di Gabriella Dal Lago, che leggo lentamente, cercando di decifrare per la seconda volta la smania di Greta e le particolarità degli altri personaggi. La stanza immersa nel buio, solo un rettangolo ad illuminare il mio viso: il mio pc con la luce notturna attivata (perennemente: lo schermo del mio pc ha questa patina giallognola a cui ormai non posso rinunciare) e dalle cuffie un sussurro mi dà il bentornato — se ci siamo già visti, o meglio sentiti — o il benvenuto — se sono una persona nuova, capitata su quel video YouTube per la prima volta: è una ragazza, un’ASMRtist, pronta a spazzolarmi i capelli e a massaggiarmi il viso per i prossimi cinquanta minuti.
Da un po’ ormai cerco di prendere sonno guardando video ASMR; non guardo i mukbang — i video in cui la gente interagisce col pubblico mentre mangia — perché io sono molto picky e tendo a disgustarmi facilmente ma adoro quelli in cui la persona davanti a te sussurra, ti accarezza, ti spazzola, ti trucca o ti strucca, ti massaggia e ti pizzica, ti lava i capelli o ti spruzza un po’ di profumo. Mi piacciono anche i video in cui la persona davanti a te gioca con dei trigger — oggetti che dovrebbero produrre rumori particolari o in grado di farti venire i brividi — di svariati materiali e superfici: legno o vetro, lisci o zigrinati. Alcune volte mi addormento dopo una decina di minuti per poi svegliarmi col pc sulle gambe e una strana fitta d’imbarazzo a cogliermi mentre spengo tutto per crollare di nuovo; altre guardo uno, due video, poi spengo e metto Hejira di Joni Mitchell su Spotify, partendo sempre dalla terza canzone, Furry Sings the Blues, forse la mia preferita dell’intero album.
Arriva l’estate, arriva l’insonnia, la città si svuota, le mie amiche spariscono e io, tra le tante cose, guardo film.
A inizio luglio ne guardo uno che inizia proprio con un sussurro. Schermo nero. Una voce mi dice: welcome back. La voce è felice che io sia lì, con lei, mentre ci prepariamo per andare a dormire. Sorrido. Che cosa buffa, penso, un film che inizia come un video ASMR e che guardo proprio adesso che ho sviluppato l’abitudine di guardare video ASMR per addormentarmi. Una persona davanti alla finestra, coperta da una tenda. Sembra un fantasma vittoriano. Uno dei due amanti del famoso quadro di Magritte. Qualcuno aggiusta un letto, ne sistema le coperte, il cuscino. Posa un quaderno aperto sul comò, una penna tra le pagine. Schermo nero. Conosco Tessa e Ben — lei: lunghi capelli mossi, grandi occhi da cerbiatto e denti sporgenti; lui: naso all’insù, occhi chiari, viso da ragazzo di una qualsiasi serie tv Disney dei primi anni Duemila —, tornati a Philadelphia per la rimpatriata del liceo di lui. Ben appare da subito dispotico, ma il suo dispotismo è farcito di superficiale ironia. Non lo sopporto. Tessa ascolta le sue lamentele, risponde a tono, estrae la chiave dal lucchetto di sicurezza. La coppia entra nell’appartamento la cui stanza ha affittato per il fine settimana. L’appartamento sembra diverso dalle foto, più triste, dice lei. Pensi che sia a casa?, chiede poi a Ben. Tessa si riferisce al tizio da cui ha affittato la stanza. Subito i primi problemi: la stanza è gelida, l’aria condizionata è ancora accesa, l’asciugamano per gli ospiti ha uno strano odore. Tessa va per fare una doccia ma entra per sbaglio nella stanza del padrone di casa che, al buio e con le cuffie, lavora al pc. Chiede scusa, imbarazzata, e chiude subito la porta. Il primo a scambiare due parole con lui è Ben, che subito lo riferisce a Tessa. È davvero strano. Mi ha risposto per monosillabi, non mi ha chiesto nulla, non ha detto nulla. Tessa non capisce il motivo per cui Ben si stia preoccupando così tanto, risponde: Forse è solo introverso. Sembra molto introverso. Forse chiederà ad Adam, il padrone di casa, di comparire in un suo video — Tessa è l’ASMRtist che sta all’inizio del film — e Ben risponde che lei non vuole davvero chiederglielo. Perché è orrendo?, domanda Tessa. E lui: No, ma sai quando essere socialmente inetti diventa una caratteristica fisica? Ecco cosa è successo a quel tipo. I due sorridono, artefice lui e testimone lei di una cattiveria pronunciata a bassa voce, ma le pareti sono sottili come fogli di carta e Adam ha sentito tutto.
Ora non sto qui a raccontare per filo e per segno ciò che succede, non è mia intenzione farlo, ma sin da subito ciò che mi attira di This Closeness è proprio la vicinanza che dà il titolo al film, una vicinanza sia fisica — corpi che si sfiorano e si toccano con curiosità, compassione, fastidio, violenza, anche odio — sia virtuale. Ben e Tessa tentano, come meglio riescono, di mantenere una relazione le cui fondamenta non fanno che sgretolarsi sempre di più; urlano e piangono e si baciano e si perdonano in una casa dai muri deboli, in uno spazio angusto abitato da uno sconosciuto che, a sua volta, non sa come muoversi tra di loro e nella sua stessa vita e così diventa spettatore involontario del naufragio che tiene unita la coppia. L’intimità tra i tre diventa da subito scudo dietro cui proteggersi e arma con cui ferire — confortante e vulnerabile e tagliente nel suo insieme.
Vedendolo, e rivedendolo una seconda volta, le conversazioni intrise di una franchezza che ho trovato tenera e brutale insieme mi hanno ricordato tanto i dialoghi nei romanzi di Sally Rooney; quell’onestà così immediata, curiosa e vulnerabile che mi fa semplicemente impazzire. La forma quasi impercettibile che prende una conversazione quando subentrano i dubbi, gli attriti di opinione e l’imbarazzo. La difficoltà nell’aprirsi con qualcuno.

Zauhar — regista, sceneggiatrice e protagonista di This Closeness — è riuscita a confezionare in un’ora e trenta una vera e propria lotta all’insegna dell’intimità, in cui i diretti interessati non fanno che ferire, cadere e rialzarsi per riappropriarsi dell’altro e di sé, un chamber piece dall’aria satura di imbarazzo e costellato di fraintendimenti e scambi che, come l’ago di un tatuaggio, rimangono addosso: penso alla scena della sessione di terapia al telefono tra Tessa e la sua psicologa o al finale aperto e ambiguo.
Incapace di guardare qualcosa per poi andare avanti con la vita come farebbe una persona normale, ho contattato la regista su Instagram chiedendole di poter leggere la sceneggiatura del film — avrei voluto stamparla e sottolineare le frasi più impressionanti — ma lei mi ha risposto che non è possibile condividerla, peccato.
Comunque Kit Zauhar, asioamericana classe 1995, col suo film di debutto Actual People — storia di un’imminente laureanda che deve affrontare il dolore di un cuore spezzato e le aspettative sociali e familiari riguardo al suo futuro lavorativo (qualcuno direbbe una nuova aggiunta all’universo delle girlfailure, argomento che trovo estremamente interessante) — e This Closeness, si è rapidamente fatta spazio tra i miei registi preferiti per la franchezza con cui mostra i suoi personaggi — fastidiosi, pretenziosi, umani — e le modalità con cui riesce a parlare della mia generazione (o di quella precedente) senza ricorrere a inutili e imbarazzanti stereotipi — hai presente il cringe che ti assale quando una persona nata prima degli anni ‘90 parla della Gen Z? — offrendo una visione nuova e carica di umorismo e delirio, in cui i malintesi sono puntuali, dietro l’angolo, e il caos è padrone.
Adesso aspetto con impazienza, come ho aspettato questo secondo film, i progetti futuri di Zauhar. Uno è stato già confermato: l’adattamento di How Should a Person Be?, romanzo del 2010 della scrittrice canadese Sheila Heti — in italiano La persona ideale, come dovrebbe essere?, nella traduzione di Moira Egan e Damiano Abeni, edito da Sellerio.
Arriva l’estate, arriva l’insonnia, la città si svuota, le mie amiche spariscono e io, tra le tante cose, guardo film e ci penso costantemente, ad alcune scene, flash improvvisi che mi ricordano quanto interessanti siano le persone, le relazioni che intessiamo e il desiderio che abbiamo di essere voluti, desiderati.
Di questo ne parla, o meglio canta, abbondantemente Clairo nel suo nuovo album Charm, uscito lo scorso 12 luglio.
Mi tocca tratteggiare una piccola premessa: cresciuta a pane e bedroom pop ma di quello veramente sciocchino e dreamy, quando tre anni fa Clairo rilasciò Sling, il suo secondo album, la delusione fu immensa: un concentrato di folk rock che trovai soporifero e insapore. Dov’era finita la Clairo di Immunity (il suo primo album), la Clairo del soft rock, del bedroom pop, dell’indie pop? Cos’era quella lagna? Diedi la colpa a Jack Antonoff — che ha collaborato alla produzione dell’album — e tornai ad ascoltare Immunity e tutte le canzoni precedenti, fingendo che quel secondo album non esistesse. Certo, tre anni fa non avevo mai sentito Joni Mitchell, per dire, e detestavo le ballad con tutta me stessa. È bastato che passasse del tempo, riaccendessi la mia curiosità, e un viaggio di sei ore verso Roma per dare una seconda possibilità a Sling e adesso lo ascolto inquadrandolo nel giusto contesto: penso sia un album perfetto da ascoltare in autunno, quando il cielo è grigio e tu hai freddo e stai a letto a riposare ma magari non riesci a dormire e allora premi play e ascolti tutto, da Bambi a Management, lasciando che ti coccoli nel suo morbido calore.
Con Charm, invece, è stato amore a primo ascolto: Sexy to Someone è l’inno soft rock di tutte le ragazze infossate che ammettono senza vergogna o imbarazzo quanto vogliano essere l’oggetto del desiderio di qualcuno — Clairo stessa lo canta: I want to be sexy to someone (is it too much to ask?) / I want to be sexy to someone (then what’s holding you back?) / I want to be sexy to someone (it’s not too much to ask) / Sexy to someone; e lo ripete nel ritornello: Sexy to somebody, it would help me out / Oh, I need a reason to get out of the house / And it’s just a little thing I can’t live without.
L’universo che ha creato Clairo in Charm, un universo soft rock e jazz, un universo di creaturine del bosco (ho una voglia matta di tatuarmi i gattini, le fatine e gli spiritelli del nuovo album), un universo in cui è okay ammettere di desiderare di essere desiderata, un universo di ritrovata sicurezza sensuale — degno di qualsiasi gurlie meme che salvo su Instagram in una cartella dal titolo “Vedersi” — mi porta a pensare al cinema di Zauhar; ai meme che invio alle amiche, le quali rispondono con emoji allucinanti o frasi colme di ironica disperazione; a una frase che ho letto in una recensione di Charm in riferimento alla voce di Clairo, frase che ho segnato nel mio diario: “Her voice comes across more like a murmur in a crush’s ear than a sheepish mumble on a first date”. Una voce inconfondibilmente sommessa, un sussurro, come in un video ASMR.
I due film di Kit Zauhar, Actual People (2021) e This Closeness (2023), fanno parte della rassegna “Dobbiamo per forza dire la verità?: due film di Kit Zauhar” su MUBI, e qui hai un mese gratuito per guardare questo e tanti altri bellissimi film.1
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